Anno 2022 anno 17

UOMO E NATURA: UN RAPPORTO ANTICO MA TUTTORA IRRISOLTO

RIASSUNTO

Il rapporto uomo-natura è stato declinato in maniera diversa nelle differenti culture ma nel corso del tempo vi è stata una progressiva accentuazione della visione antropocentrica. Vengono considerate le possibili cause di questo processo culturale,

con particolare riferimento alla capacità tecnologiche, nonché le sue implicazioni.

Una breve rassegna dei modelli teorici e delle misure utilizzati per studiare il rapporto uomo-natura porta alla conclusione che la divisione stessa tra uomo e natura è un limite ad una visione eco-sistemica, più funzionale sia sul piano teorico (modelli) che a livello operativo (interventi di mantenimento degli equilibri ambientali).

Parole chiave: uomo, natura, rapporto, antropocentrismo, ecosistemi.

Negli ultimi decenni vi è stato un rinnovato interesse per  l’ambiente, legato non solo alla preoccupazione per le crisi climatiche e l’inquinamento ambientale, ma anche alla crescente consapevolezza della interdipendenza tra organismi ed ecosistema.

In molte nazioni industrializzate l’organizzazione sociale ha portato ad un allontanamento dell’uomo dalle caratteristiche proprie dell’ambiente evolutivo: l’urbanizzazione, la meccanizzazione e più recentemente la digitalizzazione hanno determinato profondi cambiamenti nell’ambiente fisico e sociale. Si comprende quindi l’esigenza di un “ritorno” a condizioni di vita più “fisiologiche”, sostenuto anche dalla indicazione medica che gli ambienti naturali e le città “verdi” esercitano, in vari modi, un effetto salutare e che la salvaguardia degli ambienti oltre ad essere necessaria ha  anche un ritorno economico. 

Tuttavia, il rapporto uomo-natura non è solo un tema attuale: è stato dibattuto fin dall’antichità, ovviamente in termini diversi nel tempo e nelle differenti culture, attraversando l’arte, la religione, la filosofia e la scienza. Madre o matrigna, la potenza della natura fin dai tempi antichi ha suscitato un timore reverenziale ed ha alimentato miti e riti. 

Rimandando per una trattazione sistematica degli aspetti storici e antropologici a pubblicazioni specialistiche (Grossman, 1977; Kahn, 2001; Kozma & Andrei, 2018), vorrei fare su questi soltanto alcune considerazioni generali.

Poco sappiamo del periodo preistorico: dalle rappresentazioni rupestri possiamo supporre che gli elementi più importanti del contesto naturale fossero i grandi mammiferi, da cui probabilmente dipendeva l’economia dei “cacciatori-raccoglitori”. Le dimensioni degli animali rappresentati sono enormi rispetto a quelle dei pochi umani che compaiono, peraltro con aspetti teriomorfi (Fig. 1). 

Fig.1 - L'uomo-leone
Fig.1 – L’uomo-leone

In epoca storica le divinità sembrano avere una progressiva antropomorfizzazione. Per limitarci a quelle connesse ai fenomeni naturali nel periodo greco romano Zeus, dio della folgore e della pioggia, viene rappresentato con forme umane in statue talora enormi, come il colosso di Rodi, così come appaiono in forma umana analoghe divinità della pioggia, come Chac in Mesoamerica o Indra  in India. Attualmente la mediazione divina è del tutto scomparsa: l’uomo tecnologico ha il progetto di “creare” nuvole artificiali per  generare pioggia nei periodi di siccità! 

Potremo chiederci come sia avvenuto nel corso del tempo questo capovolgimento del rapporto con la natura caratterizzato da un antropocentrismo (Bhattacharjee & Debnath, 2021) sempre maggiore.

Una ipotesi suggestiva è che questo processo sia legato all’aumento della potenza tecnologica, che ha enormemente accresciuto il senso di potenza fino a trasformare l’uomo nel predatore apicale dell’ecosistema terrestre. Se tuttavia consideriamo la dotazione di base dell’organismo umano, questa non sembra avere le caratteristiche di un “predatore” ma piuttosto di una preda, come probabilmente è stato l’uomo per un lunghissimo periodo, finché gli strumenti non gli hanno permesso di difendersi e anche di aggredire animali molto più forti di lui, anche grazie ad una strategia di caccia in gruppo.  Forse  già un uomo con con un grosso bastone si sentiva un leone:  Ercole è nella pelle del leone così come il suo minuscolo analogo del periodo paleolitico (Fig.1).

Nel corso del tempo, le armi utilizzate sono divenute sempre più efficaci: la comparsa dell’arco, con la possibilità di uccidere a distanza, curiosamente coincide con la scomparsa della mega-fauna (Fig. 2). 

Fig. 2

La capacità di modificare l’ambiente è divenuta sempre maggiore: l’agricoltura ha portato allo sfruttamento sistematico del territorio e alla scomparsa delle grandi foreste, mentre l’allevamento, oltre ad aumentare la disponibilità di prede a portata di mano e contribuire alla deforestazione, ha introdotto le principali malattie infettive (zoonosi). La falce di Crono non  mieteva solo messi, ma anche vite umane  (Fig. 3).

Fig. 3

Infine, l’uso degli strumenti metallici ha aumentato enormemente la possibilità di sfruttamento delle risorse e la capacità di aggressione, anche intraspecifica (Fig. 4).

Fig.4 – L’età del bronzo

La storia antica, come ci è stata tramandata, è per lo più una storie di guerre: infatti chi le ha vinte le ha anche narrate. 

Nell’antica Grecia le tre età dell’uomo (Fig. 2, 3 e 4) venivano viste come un percorso di decadenza, dall’età dell’oro e quella del bronzo, e anche nella tradizione biblica la cacciata dall’Eden è connessa ad una caduta. Come si è affermata nella storia più recente l’idea trionfalistica di un crescente “progresso” insieme alla collocazione dell’uomo all’apice del percorso evolutivo? 

Se consideriamo le dotazioni biologiche (la formazione di materia tramite energia solare, la lunghezza del genoma e la durata di vita talora millenaria) forse dovremmo considerare le piante come la forma biologica più evoluta. Se non ci fossero le piante non ci sarebbe la vita sulla terra, così come la vediamo, e se queste scomparissero verrebbero meno le condizioni di sopravvivenza della maggior parte delle specie viventi. Se si estinguesse la

specie umana – invece – si creerebbero soltanto nuovi equilibri ecologici. 

Pur continuando a considerare valide la teoria darwiniana per quel che riguarda la specializzazione delle funzioni in rapporto al contesto ambientale, tramite variazioni epigenetiche o limitate mutazioni, potremmo valutare l’ipotesi di una “teoria dell’involuzione” (Fabretti, 2022): una perdita piuttosto che un guadagno di funzioni con la diffusione progressiva di organismi “opportunisti” (es. erbivori rispetto alle piante e carnivori rispetto ad erbivori) (Fig. 5). 

Fig.5 – La teoria dell’involuzione

Tale teoria implica una collinearità delle specie (Sermonti, 2015), probabilmente a partire da prototipi unicellulari dove lo scambio di materiale genico è ampiamente documentato, a differenza degli organismi pluricellulari che mantengono per lo più inalterato il loro assetto genetico. 

L’uomo pur non avendo una dotazione competitiva valida ha tuttavia sviluppato le funzioni cerebrali compensando la sue carenza con la produzione di strumenti sempre più efficienti che gli hanno conferito capacità costruttive e distruttive crescenti. L’aumento della potenza tecnologica non accompagnata da una adeguata conoscenza scientifica e da una buona dose di saggezza, tuttavia, crea una condizione di rischio: la progressiva azione alterante sugli ecosistemi è infatti pericolosamente connessa al rischio di perdita degli equilibri omeostatici con conseguenze non sempre prevedibili. 

Questo atteggiamento che possiamo chiamare predatorio può essere collegato, oltre che alla potenza tecnologica nelle mani di un uomo con un cervello sostanzialmente “paleolitico” (Fig. 6), anche agli elementi antropologici precedentemente considerati.

Fig.6 – L’uomo tecnologico

Essendo un predatore recente l’uomo potrebbe aver mantenuto un senso di precarietà che lo porta ad un consumo vorace delle risorse. Ovvero la specie umana potrebbe non aver ancora stabilito un equilibrio con le sue prede, come viene ipotizzato dalle teoria di Dawkins (1976) a proposito dei falchi e delle colombe, per cui la sopravvivenza degli uni è legata alla sopravvivenza delle altre e viceversa.

A questo si aggiunge la tendenza culturale dell’uomo a considerarsi  il “padrone della natura” per diritto o per donazione.

L’insieme di questi elementi potrebbe spiegare la tendenza a sfruttare le risorse ambientali fino all’esaurimento e al degrado irreversibile, pensando all’oggi e non al domani, nonostante gli allarmi ambientali siano sempre più pressanti così come  crescenti sono le pubblicazioni in materia.

Infatti, data la notevole importanza del tema, la letteratura scientifica sull’argomento è molto ricca: numerosi sono i concetti, nonché le relative misure, usati per descrivere la connessione tra specie umana e natura. Tra questi emergono: l’Estinzione dell’esperienza, intesa come perdita nella società contemporanea delle interazioni tra esseri umani e natura (Pyle, 1978), la Inclusione della natura nel Sé collegata alla presenza, a livello cognitivo, di convinzioni a favore della natura (Schultz, 2001), e l’Ecologia profonda che delinea una visione filosofico-sociale basata sull’eco-saggezza (Naes, 1973; Bragg, 1996). Ma l’aspetto più interessante messo in luce da numerosi studi è l’effetto positivo sulla salute umana, sia fisica che psichica, del contatto con la natura che ha portato a ipotizzare un profondo legame evolutivo con essa, espresso da una sorta di “biofilia” (Wilson. 1984). I benefici derivanti dal contatto con contesti naturali sarebbero legati sia meccanismi psico-emotivi, connessi anche ad una valenza estetica, (Stress Reduction Theory – Ulrich, 1983) che cognitivi e in particolare attenzionali (Attention Recovery Theory – Kaplan & Kaplan, 1989).

La teoria apparentemente più produttiva è quella della Connessione con la Natura (Mayer & Frantz, 2004)che cerca di identificare la componenti chiave del contatto con la natura e ne definisce quattro in particolare: informazioni sulla naturaesperienza nella naturaconnessione con la natura e connessione impegnata

Le informazioni sulla natura si basano principalmente su concetti cognitivi e informazioni ottenute attraverso l’istruzione o i media. Le esperienze nella natura si riferiscono a sport e attività ricreative all’aperto, mentre la Connessione con la natura connota l’esperienza emozionale che deriva dall’immersione nella natura. La Connessione impegnata definisce infine un insieme di comportamenti mirato servire le comunità sociali ed ecologiche.

Questa teoria ho stimolato numerosi studi con diversi strumenti psicometrici. I più frequentemente usati includono: l’Affinità emotiva verso Natura (EAN) [(Kals & Montada, 1999), l’Inclusione della Natura nel Sé(INS) (Schultz, 2001), la Scala dell’Identità Ambientale (SIA) (Clayton, 2003), la Scala di Connessione alla Natura (CNS) (Mayer & Frantz, 2004) e la Scala di Parentela con la Natura (NRS) (Nisbet et al., 2009).

Come si evince da questa breve sintesi il panorama teorico su cui si basano le numerosissime ricerche è assai ampio, ma alla impostazione di base della maggior parte delle prospettive, e in particolare alla la teoria della Connessione con la Natura, viene mossa una critica di fondo.

Fletcher (2017), nell’articolo “La connessione con la natura è un ossimoro:” la politica ecologica del “disturbo da deficit di natura”, segnala alcuni eccessi di questa impostazione, come l’aver ipotizzato una nuova categoria diagnostica (disturbo da deficit di natura), ma soprattutto evidenzia un nodo teorico centrale.

La direttiva di riconnettere l’uomo con la natura, pur essendo animata da ottime intenzioni, ribadisce la separazione tra uomo e natura, rischia quindi di aggiungere alle dicotomie insanabili che caratterizzano la maggior parte delle società attuali, come natura-cultura, soggetto-oggetto, mente-corpo, anche il rapporto uomo-natura.

È difficile immaginare un superamento di queste dicotomie se si considerano i due opposti come entità piuttosto che due diverse prospettive di un unico sistema.

CONCLUSIONI

La visione del mondo che colloca l’uomo in un ruolo unico e privilegiato, separandolo dall’ambiente, può costituire un limite non solo sul piano teorico ma anche a livello operativo. Infatti i modelli e gli interventi che non tengono conto della interconnessione degli elementi di un sistema, per cui la modifica di un elemento cambia  l’intero sistema, rischiano di essere inefficaci e talora dannosi, sia che si tratti di un microsistema, come la cellula dove l’introduzione di un gene può comportare la riprogrammazione dell’intero genoma, ovvero di un macrosistema, come l’ecosistema dove l’adozione di un modello riduzionista può portare ad interventi su un unico fattore “causale” (CO2) piuttosto che ad un intervento integrato sull’insieme dei fattori che concorrono a determinare l’instabilità del sistema.

La visione meccanicistica, di cui il trans-umanesimo sembra rappresentare la logica conseguenza, potrebbe costituire il principale ostacolo culturale alla comprensione e al mantenimento degli equilibri ambientali.

BIBLIOGRAFIA

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Stefania Borgo
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